Guido non ricorda nulla, dopo il Vajont recupera la memoria e vorrebbe far dimenticare l’orrore ai sopravvissuti.
Guido Monti scava, tira, depone qualcosa su una barella, le mani sporche di fango, il naso chiuso per non respirare le zaffate di morte che aleggiano in quel deserto levigato dall’acqua. Ad un certo punto, poco piú in là del luogo dove è atterrato l’elicottero, trova una cassetta, gialla e piccola come quelle in cui i bambini ripongono le loro cose, miracolosamente rimasta intatta in quella furia, risalta in quel paesaggio bianco sporco. Quale può essere il tesoro di un bambino? Un disegno con il sole, le matite colorate, due gessetti e un quaderno con i compiti di scuola. La richiude con cura, la porta con sé. Non vuole soffermarsi a pensare al corpo di quel bambino, alla sua casa schiacciata dalla corsa rabbiosa di un’onda e del resto è mattina, ha lavorato durante quella lunghissima nottata, non ce la fa piú. Gli concedono qualche ora di riposo mentre arrivano altri soccorsi, la Croce Rossa, volontari, altri militari accorsi da tutt’Italia. Si sveglia a mezzogiorno. Ci sarà ancora qualcuno vivo, a Longarone? Quali altri orrori avranno incontrato gli altri? Sobbalza, ha paura. Per la prima volta in tutta la sua vita ricorda, e rammenta dei corpi, del fetore di quella piana di calce battuta dalla morte, del silenzio, quel roboante silenzio che tutto avvolgeva, degli elicotteri piú su, oltre la diga, diretti verso gli altri paesi e della cassettina gialla posata accanto a lui. Torna sul posto, ci resta rifiutando soste o riposo, e mano a mano che lavora ricorda…
(Rif. Pagina 36)
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La gente di un paese, durante la prima guerra mondiale, viene forzatamente fatta andare via. Spera di non dover lasciare Vermiglio (TN), ma non sarà così.
E chiesero di non dover lasciare gli animali che, quasi consapevoli che qualcosa di terribile stava per accadere si agitavano inquieti nella stalla, e il cimitero dove riposavano per sempre i loro morti. Perfino i sassi dei muretti a secco costruiti a margine delle viuzze strette e ripide e le viole del pensiero che sbucavano qua e là tra le crepe costituivano motivo di nostalgia e rimpianto, e addirittura i lunghi e freddi inverni di cui tanto si erano lamentati parevano ora insostituibili e belli ai loro occhi. Fino all’ultimo la gente portò lumi nella chiesetta tanto che l’altare maggiore splendeva rischiarato da centinaia di luci. Furono suppliche non ascoltate o, semplicemente, ascoltate ma non esaudite per misteriose ragioni. Due giorni dopo, infatti, il primo gruppo era radunato in piazza e c’era voluto un bel po’ perché tutti gli abitanti della frazione fossero pronti. Ognuno aveva lasciato libere le bestie, carezzandole un’ultima volta, e tutti sfioravano piano le casette chiuse e ormai disabitate e quando per caso un pezzetto d’intonaco cadeva loro in mano, lo riponevano in tasca come il piú prezioso dei tesori e non staccavano gli occhi dal loro piccolo mondo fino a quando l’abitazione non scompariva alla loro vista dietro una curva, un pendio, ed allora le lacrime trattenute fino a quel momento esplodevano senza sosta, e tutti, chiusi nel loro personale dolore, condividevano la medesima angoscia. Don Giovanni aveva fatto lo stesso chiudendo la porta della canonica e, per ultima, la chiesa. Aveva soffiato sui lumi accesi, li aveva spenti uno ad uno senza fretta, si era inginocchiato nel primo banco di fronte alla statua di Santo Stefano e singhiozzando aveva rivolto un’ultima preghiera; non per restare, stavolta, ma per tornare presto a casa.
(Rif. Pagina 41)
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