-INVERNO IN CITTÀ-
Una mattina, quando mi svegliai, la casa era invasa da una strana luce, che non era comune in inverno.
Mi drizzai sulle zampe posteriori per affacciarmi alla finestra e curiosare e rimasi sbalordita: tutta la città doveva aver deciso di fare il bucato!
Dappertutto erano stese lenzuola bianche, non c’era più neppure lo spazio per una mosca!
Alcuni temerari avevano il coraggio di camminarci sopra lasciandovi orme scure.
Mi aspettavo da un momento all’altro che qualche massaia infuriata sbucasse dal portone e li inseguisse con il mattarello.
Il padrone prese il guinzaglio e mi precipitai scodinzolando alla porta.
Mi infilò il cappottino blu; non riuscivo a trovare i buchi per le zampe e mi ritrovai legata come un salame, a mo’ di verme.
L’uomo mi sistemò accuratamente l’indumento, che aveva un collo bianco piuttosto ampio, quasi “elisabettiano”: mi mancava solo una bombetta ed un grosso sigaro in bocca e sarei stata un perfetto Lord Inglese!
Scendemmo le scale e mi trovai… nel bel mezzo del bucato!
Siccome, come più volte vi ho ripetuto, sono educata, mi ritrassi, ma Giulio mi trascinò sotto il consueto albero.
Le mie zampe affondavano stranamente in quelle lenzuola che dovevano essere state lavate ad una temperatura sbagliata, perché il freddo mi saliva progressivamente verso l’alto impadronendosi di tutto il mio corpo.
Sentivo i cuscinetti dei piedi bagnati e quasi scivolavo.
Guardando verso l’alto dei rami, mi stupii accorgendomi che tracce di piccoli indumenti bianchi erano impigliate anche lassù.
Vidi inoltre tante farfalline bianche, forse morte dal freddo, scendere dolcemente fino a posarsi sulle lenzuola ed anche sul mio cappottino, dove si trasformavano in piccole gocce d’acqua.
Saltai indietro, in preda alla paura.
Giulio mi disse: “Sciocchina! È neve! Semplicemente neve! Devi sapere che…”
“Io non voglio sapere nulla”, avrei voluto dire, “ho freddo ai piedi e voglio tornare a casa!”.
(Rif. Pagina 45)
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-L’INCIDENTE-
Una sera fui destata da un insolito fermento.
Mi accorsi della presenza di estranei in camera da letto: Giulio, sdraiato in terra, non riusciva ad alzarsi; fu preso, avvolto in un lenzuolo e portato via da due uomini vestiti con una tuta arancione.
Riconobbi il genero di Mirella e scodinzolai, ma, contrariamente al solito, invece di farmi festa, mi ignorò, intento a riempire frettolosamente una borsa della padrona con alcuni indumenti.
Fece indossare a Mirella il cappotto e, sostenendola col suo braccio, la portò via con sé, insieme a Chicco e alla sua gabbia.
Rimasi sola nel corridoio, che mi sembrò all’improvviso opprimente.
Attesi vicino alla porta che qualcuno ritornasse, ma non si vide nessuno.
Le ore passarono lente, finché il buio della notte fu sostituito da un tenue chiarore; ma ero ancora, disperatamente, sola.
La mia ciotola era piena, ma non avevo nessuna voglia di mangiare.
Mi misi a rovistare nella mia coscienza per capire se avevo commesso qualcosa che aveva meritato quell’abbandono.
Almeno avessi potuto confrontarmi con Chicco, perché, in tutta sincerità, non trovavo nessuna ragione che giustificasse quel trattamento.
Saltai la mia consueta passeggiata; la porta era serrata e feci i bisogni nella mia toilette personale, fatta di giornali e riviste.
Il silenzio che mi circondava era quasi doloroso: come avrei preferito udire una voce conosciuta, anche di rimprovero!
In preda alla depressione incalzante, non trovai niente di meglio da fare che annegare i miei dispiaceri in un sonno senza sogni.
(Rif. Pagina 69)
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-NOVITA’-
Trascorsi una decina di giorni in quel luogo per me sconosciuto, triste all’inizio per quel senso di abbandono che mi perseguitava.
Salutai guaendo le figlie del padrone attraverso le sbarre di un grosso recinto, dentro il quale le zampe affondavano in uno spesso strato di segatura.
All’improvviso mi accorsi di essere in numerosa compagnia: cagnolini di diversa razza col pelo arruffato “grondante” di segatura giacevano stravaccati qua e là, in mezzo a ciotole d’acqua e avanzi di cibo maleodorante.
Ci annusammo per conoscerci meglio, fra eliche di code.
Essendo probabilmente la più giovane ed intraprendente, mi sentii in dovere di svegliare quelle povere creature facendo un giro di corsa all’interno del recinto.
Una bionda cagnolina con lunghi baffi spioventi mi si accodò all’istante, ed in breve fu imitata da tutti gli altri, in una vorticosa girandola di colori.
“Che succede?” chiese, affacciandosi alla porta, l’uomo del negozio.
“Ho capito, avete bisogno di sgranchirvi le zampe!”.
Adocchiò l’orologio da polso, annuì e, con un grosso mazzo di chiavi, chiuse la saracinesca del negozio e ci lasciò liberi.
Presi la fuga nel corridoio trascinandomi dietro una sinuosa fila ansimante di cani.
Corremmo a lungo avanti e indietro finché il barbuto ce lo permise, poi tornammo di malavoglia nel recinto dove tutti gli ospiti mi si affollarono intorno abbaiandomi la loro ammirazione.
Avrei dovuto fare un discorso di circostanza, ma scrollai la testa e mi accucciai col muso tra le zampe.
Tutti all’unisono mi imitarono e poco dopo il nostro russare ricordava un condizionatore acceso.
(Rif. Pagina 74)
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