UN MODO DI PARLARE
Estratto da “Una certa indole italiana”
Solleva la questione della capacità critica del cittadino italiano, intorpidito dal linguaggio dei mass media.
La propensione di una certa Italia distratta e frettolosa, desolidale e menefreghista, consumisticamente bulimica e intel- lettualmente astinente, allevata dalla nutrice edipicamente seduttiva della tivù con le sue pappine anaboliche, […] ha incontrato l’offerta di una ideologia fatta di salutismo, sincretismo, orientalismo, misticismo, naturismo, energetismo e oc- cultismo, un preparato sciropposo che ha l’effetto di indurre una gradevole sedazione generale, un torpore civile e culturale che sembra ridurre, sul momento, le asperità della vita e la complessità delle cose.
Quale sorpresa, dunque, che prestigiatori, mangiafuoco, strologanti, guaritori ed esorcisti vi esercitino un florido business? […]
L’Italia deve ancora crescere, ma deve farlo in fretta.
In Italia v’è urgenza d’istruzione, di formazione e di ricerca. Di standard ben più elevati di cultura generale per tutti i cittadini. V’è urgenza di cultura scientifica più che di preparazione tecnica. Di linguaggio ben più che d’inglese. D’impresa cultu- rale almeno quanto di cultura imprenditoriale. D’intercultura oltre che d’internettismo. Di pulsione di sapere più che di passione per il saputo. Di curiosità per l’enigma piuttosto che di pratica enigmistica. […]
Allora, solo allora la politica politicante dismetterà il vaniloquio rissoso e fuorviante del suo discorso. Solo allora il gossip ipertiroideo delle ciane nei mediatici cortili scemerebbe. I portaparola dovrebbero raccogliere anche la parola sorgiva del cittadino. Una parola finalmente autorevole, invece che autorizzata. Un cittadino governabile ma non più intellettualmente asservibile. Il potere, però, il potere politico oggi in Italia, è interessato a tutto questo?
(Rif. Pagina 112)
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Dal saggio “Il nido dell’inquietudine”
Un commento all’opera del celebre regista Ingmar Bergman, alla sua appassionata ricerca intorno al senso dell’esistenza.
Ingmar Bergman è scomparso.
L’immaginario della nostra giovinezza, così come di parte della maturità, si è nutrito delle figure dei suoi tormentati perso- naggi, di storie di vite umane sorprendenti e terribili, di quell’irriducibile determinazione a indagare la contraddittorietà dell’animo umano sino a far balenare insospettate contiguità fra pulsioni e spiritualità, fra amore ed egoismo, fra l’abietto e il sublime. […]
Sovente nei film di Bergman, fin dalle prime sequenze, si può avere l’impressione d’inoltrarsi nell’oscurità di una galleria che potrebbe anche non avere sbocco. Vi prendono forma le figure di un’umanità dolente o disperata, mite o feroce, presaga o rassegnata. Quelle figure ci vengono incontro e cominciano a parlarci delle loro vite, vite ordinarie e persino banali in cui però le porte del tempo si sono improvvisamente spalancate: il senso delle cose è cambiato prima che essi se ne avvedessero e ora la loro esistenza è assediata dal dubbio, l’ambiguità pervade le loro relazioni, le parole falliscono l’intento per il quale sono state pronunciate. Ciò che una volta era famigliare, ora torna loro estraneo. Ciò da cui si sentivano alieni, ora lambisce la loro carne come un’impudente carezza.
Quando avvertiamo l’inquietudine che quella storia ha suscitato in noi, è già tardi per disimpegnarcene: sentiamo che non possiamo più ritrarre la nostra mano da quella del regista, che non dobbiamo tradire la sua fiducia. Ci lasciamo dunque condurre nei recessi delle dimore, sontuose o austere, nei quali intuiamo rintanarsi l’alterità stravolta dei personaggi o la loro alienità segregata, oppure lungo i sentieri di solitari paesaggi nordici dove l’umano può languire indefinitamente. Attraversiamo con lui le lande di una temporalità priva di misura e di orientamento per sentirci sfiorare dall’ala dell’eternità che sgo- menta o dal filo della falce che atterrisce.
(Rif. Pagina 17)
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Dal saggio “Le parole”
L’impossibilità di trattare le parole come dei meri strumenti di comunicazione, poiché esse impongono al parlante associazioni imprevedibili.
Le nostre parole tradiscono, disperdono, eludono, mancano ciò che vorremmo dire.
Eppure, ciò che vorremmo dire, spesso, non lo sappiamo prima di dirlo. Dicendolo, possiamo talvolta supporre, o credere, che si tratti di ciò che avremmo voluto.
Parlando, allora, apprendiamo l’immestiere di dire.
Apprendiamo il travaglio di divenire nella parola. L’esperienza penosa di naufragarvi. Il giubilo di ritrovarvisi. La rabbia di sentirsi ingannati. Lo scontento di non aver detto tutto. Il lieve disgusto di aver detto di più. Lo sbalordimento di aver detto altro. Lo stupore di aver mancato l’essenziale. La sconcerto di trovarsi a dire qualcosa e il suo contrario. La titubanza che accompagna la ricerca. La frenesia locutoria della trovata improvvisa. […]
Occorre ascoltare le nostre parole risuonare nel silenzio prima di aggiungerne altre, altre che potrebbero sommergerle con il loro rumore. Occorre ascoltarle prima che giungano quelle del nostro interlocutore a imbrigliarle in una rete di connessioni che ne limiteranno la virtualità originaria, la gamma dei possibili effetti di senso. Sentirle riecheggiare per poter calcolare le probabili traiettorie dell’intenzione che in esse si avverte pulsare. Occorre talvolta sostare fra quelle già dette e quelle che diremo perché le prime divengano semi e le seconde la terra che li accolga, oppure la pioggia che possa ricadere su quelle che le hanno precedute a risvegliarne tralasciati germogli. […]
E sentiamo oscuramente che qualcuno, qualcosa che ignoriamo e che pure ci costituisce, parla per mezzo nostro ma con ragioni, e mire, e accenti estranei e sorprendenti sicché vacilla l’idea statuaria che di noi abbiamo costruito, che ci sforziamo di accreditare nelle nostre relazioni ed anche presso noi stessi, quella di una persona coerente, controllata e consapevole.
(Rif. Pagina 141)
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Estratto da “World Trade”
Lo scritto tratta della tragedia delle torri gemelle. Il testo prende spunto da un talk show televisivo di quei giorni di settembre.
Dai palchi mediatici nazionali, in sussiegosi consessi rallegrati però dalle gloriose sinuosità del sex symbol di turno for- fettariamente telecamerate, si affollano i molti opinion mackers dai variopinti cappelli ideologici e nutrono dibattiti frenetici pur biberonati da interventi on line di personaggi taluni di gran fama e tal altri di gran fumo, e tutti insieme vanno deprecando, interpretando e profetando sui destini incerti dell’occidente e dei dintorni pel frangente delle towers e per lo scasso del pentagono, il rovescio dei servizi, la barbarie dei Bin Laden e le colpe dell’oriente, per il florido benessere del Nord, per la penuria intollerabile del Sud; poi qualcuno si fa serio e qualcun altro si commuove, c’è un profondo turbamento, […] il mondo non è più come una volta è un monito frequente, la guerra sarà sporca quanto mai, chirurgica invasiva piuttosto che endoscopica, e giustizia si farà, infinita quanto basta, occorrerà schiattare, si capisce, oltre che ammazzare e certo questo può anche infastidire, […] ma qualcuno osserva i Laden sono tanti, ubiquitari, invisibili e spiritici, e c’è Saddam e c’è Gheddafi, e Arafat non è dammeno se da un noto quotidiano viene quasi candidato per il Nobel per la guerra, e ci sono insomma tutti questi che le tasche le hanno rotte, e poi c’è Castro con l’avana puzzolente comunista inemendato, occorrerà lo scudo e la licenza di accoppare oltre a quella di morire, […] il fondamentalismo religioso è un fanatismo assai pericoloso, il kamikaze è un esaltato che crede troppo all’al di là mentre l’occidente punta più sull’al di qua […] e pur con tutte queste articolate riflessioni, i gran consulti degli esperti e gli autorevoli pronunciamenti dei potenti del pianeta e dei veggenti sottocasa a noi rimane l’impressione che ben più grande, e fiera, ed epocale sia la questione.
(Rif. Pagina 47)
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Estratto dal saggio breve “Il linguaggio della poesia”
Un insieme di notazioni intorno agli effetti della parola poetica sul soggetto che si suppone identico a se stesso.
La poesia chiede, suggerisce, impone una condizione incompatibile con il soggetto identico. Chiede di rinunciare alle mitologie con cui abbiamo creduto di conferire uno statuto singolare alla nostra persona, ai ruoli della quotidianità costruiti con il materiale del linguaggio ordinario.
La parola poetica, e in generale quella letteraria, con quella rinuncia ci distoglie dall’ideologia della comunicazione integrale, dalla stretta delle significazioni consuete, dai gorghi dell’autoreferenzialità, soggetti piegati all’imperio della moda, della media, dello scarto minimo, nutriti di sostanze non eteree, vestali della convenzione. Un testo di poesia ci invita a tralasciare i sentieri associativi in cui si è progressivamente impegnata la nostra soggettività e si è strutturato il nostro mondo immaginario. È come uno stormo d’uccelli in volo che svaria e si disperde e poi si ricompone mutando direzione. L’impossibilità di operare una riduzione del suo linguaggio, di pervenire a una risoluzione dei suoi effetti di senso nei repertori del senso comune, mostra la vanità e la pochezza dell’impresa con la quale talvolta tentiamo di assicurare una riconoscibilità al nostro discorso. Ciò che in cambio la parola poetica ci offre è una nuova libertà, lo spalancamento di possibilità inesplorate. È la luce di piccoli lampi, il colore che si accende sulla nostra vita quando scopriamo che può divenire liberamente nell’invenzione invece che rimanere prigioniera della rappresentazione.
(Rif. Pagina 91)
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Dal saggio “Lo psicanalismo”
Una disamina degli sconfinamenti di una certa vulgata. In particolare, nel campo letterario, con la “interpretazione” del testo.
Ha trovato un certo seguito, dagli anni ‘70, un orientamento culturale per il quale vari elementi della psicanalisi erano impiegati in discipline differenti quali strumenti di studio e ricerca (per esempio in certi studi etnografici, storici, di critica letteraria): questa tendenza è andata talvolta sotto il nome di psicanalismo ed è stata denunciata come un abuso estensivo, un indebito sconfinamento della psicanalisi al di fuori del suo campo di pertinenza, o addirittura come una “mistificazione” nei casi in cui si è tentato di utilizzarla quale rimedio ai con-flitti politici e sociali per i quali occorreva invece cercare soluzioni di tipo politico e sociale.
Occorre dire, però, che anche la psicanalisi ha subito le intrusioni degli arnesi metodologici e concettuali di altre discipline, intese a mostrare l’inconsistenza del suo statuto teorico.[...]
Si dovrebbe dunque porre la questione dei criteri con i quali si possano delimitare i campi di pertinenza.
Nel caso della psicanalisi, infatti, tale questione presenta una complessità particolare poiché proprio il suo fondatore condusse l’elaborazione teorica in diversi ambiti. […]
Certamente, nel campo della letteratura, la tendenza a cercare di inferire alcunché sulla persona dell’autore con l’analisi dei suoi testi si presenta problematica. [...]
In ogni caso, una certa critica letteraria che ha creduto di poter trattare i testi in quel modo, ha inseguito la fantasia che l’enigma del testo fosse custodito nel “privato” dell’autore.
(Rif. Pagina 40)
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