La perdita del "legno" di Calico.
In men che non si dica, sentii schioccare le vele sotto la furia del vento che, subito, le strappò in brandelli che iniziarono a sbattere nell’aria provocando un minaccioso frastuono che prese a martellarmi nelle orecchie.
Non udii nient’altro fino allo schianto provocato dalla rottura degli amantigli dell’albero di trinchetto.
Il pennone si ripiegò su se stesso fino alla rottura della trozza che lo legava all’albero, la drizza si spezzò schioccando come una corda di violino e l’asta si fiondò sul ponte pericolosamente.
L’albero stesso, senza più manovre sorrettive, cominciò a vibrare ripiegandosi al vento, strattonando lo strallo di gabbia che rendeva saldi il trinchetto e il maestro.
In mezzo alla schiuma, al sale, alle urla dei miei compagni mi precipitai verso il timoniere, Robert McCallagan, per fissare la cima che lo assicurava. Fu inutile. Un frangente di impressionanti dimensioni, una valanga d’acqua spazzò via l’intero cassero. Il timoniere non tentò neppure di stringere la ruota. L’acqua lo travolse e lo trascinò fuori bordo.
Fu quasi contemporaneamente che lo strallo si ruppe. Il trinchetto vibrò violentemente e crollò sul ponte rovinando sul bompresso. La parte più alta del Maestro – ormai sostenuta solo dal paterazzo - si incurvò fino a spezzarsi, trascinando con sé il pennone di gabbia che rovinò anch’esso sulla coperta. La parte dell’albero sotto la coffa cominciò ad agitarsi come un’anguilla, finché non si spaccò con un fragore coperto solo dai ruggiti del tuono.
Poi fu solo confusione, agitazione, vocio, invocazioni disperate, gemiti, scricchiolii, scompiglio.
(...)
L’imbarcazione cominciò a inclinarsi; l’acqua imbarcata non poteva più essere scaricata.
Il legno era perso.
Lo schianto che decretò la fine della imbarcazione fu talmente violento che quasi nessuno avvertì la propria fine.
(Rif. Pagina 23)
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La vera storia del pirata Calico Jack Rackam.
Il mio nome è Jack Rackam, ma tutti mi chiamano Calico Jack.
E per mille barili di rhum, non mi porto addosso questo nome per la tela dei miei pantaloni, come qualcuno va sussurrando nei peggiori locali dei porti; no, non proprio per quello. I motivi ve li spiegherò appresso.
Non conosco il giorno e il mese della mia nascita, ma correva l’anno 1695.
Sono morto per impiccagione alla fine del mese di novembre del 1720.
(...)
Una sera, mentre sorseggiavo un boccale di birra scura in una taverna maledetta non lontana dal porto di una città che non ricordo neppure quale fosse, fui colpito alla sprovvista e caddi stordito.
L’indomani mi trovai a navigare in una nave pirata comandata dal capitano William Kidd, detto Capitan Kidd.
(...)
Vidi per la prima volta arrembaggi sanguinari e morti e feriti, udii gridare uomini forti per il dolore, udii gente che gemeva per l’amputazione di arti, vidi negli occhi della ciurma odio e paura per il capitano, sentii parole di esaltazione e di esortazione, di critica e di ammonimento, di condanna e di punizione.
Vidi applicare le pene dei condannati tra le grida divertite dei compagni e spesso erano inflitte a gente innocente solo per atto dimostrativo del capitano o per calmare la ciurma agitata o incitarla se esitante.
Ho visto gente abbandonata in mare implorare piangendo; eppure solo il giorno prima la stessa gente, con arroganza, dissentiva dalle decisioni del capitano.
Ho udito i colpi di cannone sparare palle incatenate e moschetti e tromboni far partire il colpo tra le urla del nemico che si confondevano con quelle dei marinai all’arrembaggio.
Ho imparato i metodi di divisione dei tesori depredati e ho capito quando parlare e quando tacere.
Per un anno intero ho fatto il mozzo, fino a quando non riuscii a scappare di nuovo. Correva l’anno 1705.
(Rif. Pagina 29)
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L`arrembaggio e il recupero di un tesoro.
Già gli uomini erano pronti a balzare sopra la murata e si tenevano forti alle sartìe, quando un marinaio della caravella li vide e gridò:
"Allarmi!... Ci abbordano!"
Una scarica terribile accolse i soldati sul ponte della caravella, ferendone in gran quantità. Gli altri, spaventati e sorpresi da quell`inaspettato attacco, si ripiegarono confusamente disperdendosi per la tolda.
Un uragano di ferro e di piombo spazzò la murata recidendo paterazzi, sartìe e anche il timone. I miei uomini scavalcarono rapidamente le murate e si scagliarono sul ponte urlando spaventosamente.
I soldati, ancora confusi e terrorizzati dalle grida dei loro ufficiali, si radunarono sul cassero e sul castello di prua per fermarci con gli archibugi, ma la loro posizione si manifestò palesemente un grosso errore: due ulteriori bordate di cannone spazzarono via la poppa e la prua della nave, portandosi a mare quei poveri coscritti.
"A me, fratelli della Costa!" gridai balzando sul ponte della caravella ormai prossima ad affondare.
Ci tuffammo nelle stive, incuranti delle palle di archibugio che fischiavano intorno alle nostre orecchie, mentre i miei uomini cominciarono a immobilizzare i pochi soldati superstiti e i loro ufficiali.
Sapevamo che dovevamo agire in fretta e con molte braccia d’aiuto.
«Non fate prigionieri» gridai e subito udii i colpi dei tromboni e le urla di morte dei soldati nemici che perivano nei corpo a corpo.
I miei uomini non tardarono ad arrivare alle nostre spalle e cominciammo a cercare nelle stive e dietro le paratie divisorie.
Poi lo trovammo. Era un tesoro enorme. Una trentina di casse d’oro e argento erano stipate dietro all’ultima paratia della stiva.
(Rif. Pagina 200)
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Le regole del capitano Phillips.
Nessuno dovrà giocare a carte o a dadi per denaro; i lumi delle candele dovranno essere spenti alle otto; le armi dovranno essere sempre pronte e pulite; donne e fanciulli non potranno salire a bordo.
Sono previsti premi e anche punizioni.
Il primo che vedrà la nave da assalire avrà diritto a un premio. I feriti e i più valorosi potranno scegliere per primi. Verrà concessa una notevole somma di denaro a coloro che saltano per primi sulla nave nemica abbordata, a chi riesce a strappare la bandiera nemica e a chi riesce in missioni spionistiche particolarmente pericolose.
Premi altrettanto cospicui saranno rilasciati ai mutilati "di guerra": i feriti riceveranno una piastra al giorno per due mesi.
Ciascuno avrà un fucile e un vasto assortimento di coltelli.
In vista del legno, l’equipaggio afferrerà le armi e correrà al proprio posto: a prua quelli armati di moschetto; gli altri coricati sul ponte per non farsi scorgere, coltello fra i denti e pistola nella mano destra; libera la sinistra per l’arrembaggio.
Se non necessario non si ucciderà nessuno.
Si prenderà solo merce preziosa.
Essere da noi attaccati dovrà significare venire investiti da una forza di fuoco micidiale e da una capacità di navigazione senza precedenti.
Le punizioni sono note.
(...)
A bordo di questo legno non verrà usato il taglio delle orecchie né la morte: per mancanze gravissime come la diserzione in battaglia il colpevole verrà abbandonato senza viveri in mare aperto.
(...) Il nostro codice è quello stilato dal capitano Phillips che prevede che il "condannato" sia fornito di una fiaschetta di polvere da sparo, una bottiglia d`acqua, e una piccola arma.
Non avrà possibilità di cucinare o riscaldarsi, la pistola gli servirà solo per difendersi dagli animali selvatici, ma non per cacciare e la bottiglia d`acqua durerà un giorno o poco più.
(Rif. Pagina 133)
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Il racconto di John all`amico Monir della strana testimonianza di un marinaio sul vascello fantasma.
Circa due anni fa incontrai per caso un marinaio che era reduce da un’avventura vissuta nei Carabi. Era terrorizzato e mi raccontò una strana storia di un vascello fantasma comandato da un uomo che, a suo dire, somigliava come una goccia d’acqua a me.
Mi disse che l’imbarcazione spuntò dal nulla, avvolta da una nebbia che lasciava intravedere appena ciò che si nascondeva dietro. Le vele gonfie nonostante la calma piatta del mare e l’acqua, solo in quel punto, sembrava in burrasca. Ad accompagnarla nella navigazione vi erano due uccelli della tempesta, sicuramente non portatrici di fortuna.
Nonostante la ciurma della nave gridasse maledettamente, non si sentiva altro che il vento e il suono di una campana, che continuava a rintoccare sovrastando con il suo cupo suono qualsiasi altro rumore sottostante.
Poi, improvvisamente, furono esplose delle bordate di cannone che irruppero sul ponte squarciando il paiolato. Le schegge di legno volavano da tutte le parti, colpendo i marinai che terrorizzati guardavano il vascello avvicinarsi sempre più con fare minaccioso.
Il marinaio saltò in mare, seguendo l’esempio di altri coraggiosi suoi compagni.
A quel punto, a suo dire, il vascello si inabissò come un sottomarino, mentre il suo capitano tenendosi con la mano destra sullo strallo di prua, pareva salutare con il suo berretto la nave distrutta che lentamente andava a fondo.
(...)
Mentre si portava a riva infradicito dall’acqua e semistordito dal freddo, si accorse che vi era una grande grotta sottomarina.
(Rif. Pagina 142)
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Il villaggio nell`isola felice.
Marettimo è una montagna in mezzo al mare, poco più grande di uno scoglio. Delle Egadi è l’isola più lontana dalla costa della Sicilia, quieta e tranquilla.
La mattina e la sera si possono ascoltare i rumori della natura, rappresentata dall’elemento mare. Si sente lo sciabordio delle onde che si infrangono sulla scogliera, le grida dei gabbiani e il fischio del vento che si insinua tra gli scogli e le bianche case dei pescatori, le chiacchiere della gente davanti a un bicchiere di vino, le note di uno strumento musicale.
Se si guarda la carta nautica del Mediterraneo, Favignana Marittimo e Pantelleria disegnano un emiciclo che si prolunga verso la costa tunisina, verso Capo Bon che, con l’aiuto dei venti, appaiono baciare.
Ma non era in Africa che eravamo diretti.
Dovevamo arrivare fino all’Isola di Cipro e da lì spostarci fino nei paesi arabi.
Poi ci saremmo uniti a una carovana per raggiungere via terra il Golfo Persico dove ci attendeva l’amico Monir con le sue navi.
Il villaggio dei pescatori era poco più di un piccolo grappolo di casette bianche con le persiane colorate.
La gente era affabile e cortese e l’ospitalità si era dimostrata superba. Avevamo trovato un calore umano che raramente poteva rinvenirsi in gente di mare, per lo più caratterizzata da modi rudi e poco inclini alla confidenza.
Avevamo necessità di fare scorta di viveri e sistemare il legno per il viaggio. La nostra permanenza sull’isola sarebbe stata breve, non più lunga del periodo intercorrente tra la luna piena e la luna nuova.
Perché con la luna nuova volevo ripartire.
(...)
Quell’isola pareva stregata dalla natura e gli uomini apparivano completamente rilassati e tranquilli, dimentichi del pesante viaggio che ci aspettava nei prossimi giorni, dei rischi che avremmo corso su quei mari a noi sconosciuti e delle battaglie che ci attendevano alla fine.
(...)
Anche Ulisse approdò su un’isola felice. E i suoi uomini non volevano più andarsene.
(Rif. Pagina 191)
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L`attacco dei pirati alla navetta di John.
Fu al decimo giorno di navigazione, quando ormai erano in prossimità della costa Nord Africana. Il sole era ormai scomparso dietro l’orizzonte e sulla scia della nave si vedeva solo la luce crepuscolare.
Furono incrociati da una veloce corvetta armata che li accostò alzando all’improvviso la bandiera nera.
(...)
Mentre la sua testa entrava e usciva dall’acqua, in uno stato di semincoscienza, vide Anne e Mary che, ferite anche loro, annaspavano disperate.
Vide i loro occhi che chiedevano un miracolo che non riteneva più in grado di fare.
Guardò ancora una volta la sua nave, quella nave che trasportava il suo tesoro e che i pirati, quei pirati, forse non avrebbero mai trovato.
Guardò il ponte su cui ancora si muovevano i suoi assassini, gli assassini di Anne e poi, improvvisamente, accadde una cosa straordinaria.
Il mare a poppavia della nave, a una distanza di non più di cinquanta piedi, cominciò a ribollire.
Enormi bolle d’aria emergevano provocando una sorta di minimareggiata.
I pirati a bordo della nave videro la balena emergere dall’acqua e dirompere verso la nave con violenza. Alcuni furono subito sbalzati in mare, altri tentarono di aggrapparsi al tientibene per resistere all’attacco successivo che, però, fu sferrato dal fondo dell’imbarcazione facendola scrollare e ripiegare sulla fiancata quasi a capovolgersi.
Dal mare dove erano caduti e dalla scialuppa di salvataggio che andava affondando, Gino, Nino, Anne, Mary e John videro formarsi sull’acqua una nebbia di condensa sempre più fitta e ne videro emergere un antico e infradicito veliero, con le vele gonfie mentre il mare, solo in quel punto, sembrava in burrasca.
Ad accompagnarla nella navigazione vi erano due uccelli della tempesta, sicuramente non portatori di buona ventura.
La ciurma del vascello gridava a squarciagola, ma non si udiva altro che il vento e il suono di una campana che continuava a rintoccare sovrastando con il suo cupo suono qualsiasi altro rumore sottostante.
(Rif. Pagina 312)
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