La renna di Don Quixote
Seguii il Professore nella grotta, dove lui fece allontanare tutti gli operai e potemmo parlare a quattr’occhi senza testimoni pettegoli.
Il graffito era pregevole, una scoperta di notevole rilevanza artistica, che avrebbe fatto fioccare a Rocky Cape turisti, artisti e etnologi.
Non ero un’esperta di storia dell’arte preistorica ma, pur avendo in mente immagini precise delle Grotte di Altamira in Cantabria, quel disegno atavico e astratto, un po’ infantile e convenzionale, dotato però di grazia nella resa dinamica delle zampe in corsa, e d’una agilità post-moderna nel tratteggio, mi faceva pensare a un incrocio tra il ronzino del famoso Don Quixote di Picasso e una renna di Babbo Natale stilizzata.
“Posso toccarlo?” chiesi, distrattamente giocherellando con le spalline della giacca, dove i gradi dorati scintillavano nel buio.
“Delicatamente, per piacere.” mi autorizzò il Professore, non potendo negare un capriccio a un tutore dell’ordine.
Ne sfiorai i contorni con la punta delle dita, particolarmente con il mignolo sinistro. Come m’aspettavo, una polverina finissima nera rimase appiccicata ai pori. Non è detto sia una sventura avere i palmi sudaticci per l’emozione, mi compiacqui. E come dicono le adolescenti che hanno avuto la fortuna di toccare un lembo della sciarpa del loro attore preferito, non mi laverò le mani per un po’. Almeno fin quando riveda John.
Scattai alcune foto con il mio cellulare, le inviai alla e-mail di John con dettagliate istruzioni sul dove salvarle, e le cancellai dalla memoria.
(Rif. Pagina 43)
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Shaboo!
Entrarono in scena gli Shaboo! La folla andò in delirio. Tutti balzarono in piedi per ballare.
Il frontman , pantaloni attillatissimi a stampa pelle di serpente, piedi nudi, e giubbotto di denim strappato sul torso nudo, istoriato da talmente tanti tatuaggi che si sarebbe detto indossasse una maglia aderente a motivi verdi, rossi e neri, arringò i fans nel suo spagnolo crivellato dall’accento irlandese.
Attaccò un brano metallaro chiassosissimo, con virtuosismi di chitarra e batteria, e vocalizzi in falsetto, il cui testo, appena udibile tra il rumore degli strumenti e degli strilli isterici delle ragazze, esortava a essere saggi come il tempo: un gioco di parole su wise, saggio, clock, orologio, e l’espressione clockwise. Particolare inquietante: nel ritornello, la parola clockwise rimava con demise che, tra mille altre accezioni, significa anche crollo, morte.
“Non sono favolosi?” esclamò John con gli occhi che gli brillavano.
La mia risposta si perse nell’applauso dei fan. Meglio cosí.
Suonarono un’altra canzone, più orecchiabile, intitolata Never On A Full Stomach, che elencava una lista dettagliata di attività che mai si dovrebbero svolgere a stomaco pieno, incluse alcune che fecero arrossire anche il poliziotto navigato che era in me, sotto i panni della svaporata Karina.
Stomach, parola a rimabilità zero, qui rimava apocalitticamente, in un testo che pareva scritto dalla profetessa Cassandra, con tarmac, pista d’asfalto: Never land a plane / When you sniff cocaine / Never on a full stomach / You’ll crash on the tarmac. / If you ooze super-booze / Never drive without shoes / Never on a full stomach / You’ll crash on the tarmac. / Never get laid / Before getting paid / Never do it random / Never without condom / Never on a full stomach / Yo’ cock will go quack-quack .
La poetica sfacciata di Shaboo! mi illuminò John di una nuova luce. Promisi a me stessa di rimanermene zitta, anche se disapprovavo quel circo.
(Rif. Pagina 64)
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Colette
Zac sospese la traduzione quando finalmente l’uomo si sciolse in lacrime. Si lasciò cadere in ginocchio, prese tra le mani le ossa carpali della vittima e bisbigliò: “Colette, ti ho amata cosí tanto che quando mi hai detto che t’eri rotta di me, ho aperto la gabbia e ti ho lasciata volare via, purché fossi felice. Perché saperti felice mi faceva felice, anche se non ti avrei più rivista. Come potevo pensare che la mia gabbia serviva a proteggerti, non a tarparti le ali, come dicevi tu, e che lasciarti andare era come gettarti nelle grinfie di un rapace? Spero che prima di morire dove volevi, tu sia riuscita a vivere la vita che volevi... Colette, ora ti riporto da maman e papa” gli si dipinse un sorriso triste in viso al nominare i suoceri: “Ti ricordi quando ti sgridavano perché saltavi i pasti? ‘Colette’ dicevano ‘non fare l’anoressica, ti ridurrai uno scheletro’...” La voce gli si ruppe in sillabe sconnesse.
(Rif. Pagina 76)
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