I pompieri
Rimasi sulla ‘scena del crimine’, per poterla visitare appena i pompieri lo consentivano. Dopo qualche minuto, i due che erano andati in avanscoperta uscirono con i caschi sotto il braccio e un sorriso beato: “Tutt’a posto, capo. L’incendio, di minima entità, è circoscritto e spento. Scaturito nel forno, non ha fatto danni gravi. Le pareti intorno sono bruciacchiate, ma la struttura portante rimane sicura. Non c’erano né vittime né feriti all’interno. Non sarà necessario evacuare gli inquilini per la notte. Tutto si risolve con una mano di tinta e una nuova consegna di farina. Quella che c’era, s’è caramellata nel forno.” E a me: “Vuole fare un sopralluogo, dottore? L’accompagno.”
Dottore? Nessuno mai mi chiamava cosí, ma faceva pur sempre piacere sentirsi riconoscere una sudata laurea. Mi porse il braccio, confidenziale, ma immaginai volesse accertarsi che io non inciampassi nei detriti sparsi sul pavimento. “Anzi, sai che ti dico, bellezza? Lascia perdere il forno, vientene a casa mia e giochiamo alla pula. Ce le hai le manette?” Mi fece l’occhietto, e lasciò rotolare il casco a terra. Sfilò il giubbotto. Sfilò i pantaloni. S’asciugò la fronte imperlata di sudore. “Che caldo! Non stai ardendo anche tu?”
Prima che il caposquadra finisse di elencargli i provvedimenti disciplinari che l’aspettavano, il giovane barcollò e stramazzò sulla panchina, un braccio ciondoloni. Girò la testa verso di me, schioccò la lingua e strabuzzò gli occhi.
Il suo collega s’era seduto sul gradino antistante, e cantava a squarciagola We Didn’t Start the Fire di Billy Joel, il piccone a mo’ di microfono.
(Rif. Pagina 115)
|
La sfilata di moda
La musica si fece asfissiante, e il ritmo di tamburi tribali scandito dagli altoparlanti si ripercosse infausto contro la spessa plastica del tendone.
Le luci si spensero per un paio di secondi e, quando si riaccesero, la prima modella comparve nella penombra e marciò sulla passerella illuminata.
Vestiva di bianco da capo a piedi. Anzi, i piedi erano nudi, ornati da cavigliere di gocce di cristallo ondeggianti a ritmo con i suoi passi. L’abito era di pizzo e devoré, le due stoffe intersecate in strisce irregolari che fasciavano i fianchi. La modella fece scivolare la stola di faux-fur volpe artica per mostrare la scollatura a cuore del corpino.
Quando si fermò sulla punta della passerella e occhieggiò alla stampa, i flash si scatenarono come un temporale di fine estate. La modella fece una mezza piroetta e ritornò sui suoi passi, per andare incontro al collega, un giovanotto allampanato in pantaloni corduroy avorio e camicia di lino a maniche a sbuffo. Portava un curioso copricapo con ponpon a fiammella.
Aveva gli occhi pesantemente orlati di carboncino nero. L’espressione schifata ne tradiva l’imbarazzo, la vergogna, e l’eterno dilemma di quanto in basso uno possa cadere, adescato dalla vita in the fast lane.
La processione di modelli e modelle continuò per un’ora o più, e io mi ero appena appisolata quando gli applausi scroscianti mi fecero sobbalzare dalla sedia.
Infine uscí lo stilista in persona per accompagnare la sua Sposa. L’abito era una nuvola di piume di struzzo a cascata dalla vita in giù. La modestia della nubenda era salvaguardata dai rami d’orchidee ricamati a punto vapore che dalla schiena le sbocciavano sui seni, e dal velo di mesh che la avvolgeva come un sudario dallo chignon allo strascico. Ci furono dei fischi in sala.
Con un allegro scoppiettio, dalla volta del tendone migliaia di coriandoli candidi a forma di giglio nevicarono sulle modelle allineate all’entrata della passerella, sulla Sposa e lo stilista, e abbondanti sul pubblico estatico.
(Rif. Pagina 46)
|
L`angelo caduto
“Sembra un avvertimento.” Aggiunse Da Silva, indicandomi le bianche ali piumate alle spalle della vittima, e una prepotente scritta in rossetto rosso sul glabro petto. I mei occhi insonnoliti non mi lasciavano decifrare quello scarabocchio. Immaginai fosse arabo. Infine lo misi bene a fuoco, e capii che erano lettere latine, ma tracciate da destra a sinistra specularmente, come sui mezzi di soccorso. EGOISTE, tutto maiuscolo. Solo la E iniziale e finale erano al dritto, ma erano arrotondate come la epsilon minuscola greca o la ayin araba. Anche la G era stilizzata e arrotondata, e le stanghette della T congiunte all’estremità sinistra, come una Z senza piedistallo.
Rimuginai a mezza voce: “Egoiste? Cosa vorrà dire?”
Zac offrí la traduzione dal francese alla mia domanda retorica: “Selfish.”
Gli risparmiai l’occhiataccia e la battutina ‘thank you Detective Obvious’, e chiesi a Da Silva perché il cadavere stava in piedi da solo contro il muro.
“Ce lo hanno incollato con il Super Attak.”
Lo rimproverai aspramente: “Non sfottere, per piacere.”
“Nient’affatto. Ci sono grumi di calce dietro la testa, gambe e braccia.”
“E si sa come lo hanno ammazzato? Ci sono telecamere qui in giro?”
“No. Niente telecamere. Rocky Cape non è ancora come il Grande Fratello. Non ci sono segni esteriori di strangolamento, pugnalate, percosse o colpi in testa. Ti dirà di più il Medico Legale con l’autopsia. A occhio e croce, scusa il calembour, direi avvelenamento. Scelta prettamente femminile.”
Deglutii: “Spero che il veleno non fosse nei ghoriba.”
(Rif. Pagina 55)
|