CAPITOLO Primo -
I reduci del dixieland
Era uno di quei posti, nel circondario milanese, in cui entri volentieri se hai voglia di farti una birra e magari un panino, appoggiando liberamente i gomiti su tavoli in legno massello rigorosamente senza tovaglia. A patto di riuscire ad arrivarci, poiché per lo più sono rintanati dove meno te l’aspetti, ovvero in viuzze a malapena rintracciabili sulla mappa della città. Figuriamoci poi di sera.
Il locale, la cui robusta e ampia insegna in stile murales battezzava come l’Ittolittos, era poco illuminato e quasi deserto. Al bancone c’erano due giovani, uomo e donna, che all’unisono alla sua domanda «È qui che suonano?» gli indicarono l’estremo angolo della sala laddove si intravedeva una porticciola spalancata che dava su una stretta scala avvolta su se stessa. E fu a quel punto, prima di avventurarsi sul primo gradino, che Giacomo sentì di avere fatto la cosa giusta, uscendo finalmente un po’ di casa per staccarsi da quel benedetto computer.
Il locale che raggiunse dopo una quindicina di gradini in ripida successione aveva vagamente l’aria di una cave alla francese della “rive gauche”. Abbastanza ampio, di pianta rettangolare, disponeva di un palco per l’orchestra e di una ventina di tavolini sistemati ai lati dello stanzone a ridosso delle pareti.
C’era ancora poca gente, perciò Giacomo trovò da sedere facilmente e si guardò intorno. Beh, quantomeno, valutando i presenti, si sentì del tutto tranquillo: era improbabile che qualche giovinastro abbondantemente tatuato lo appellasse con un: «Ehi, nonno, guarda che la Baggina (noto ospizio milanese) è un isolato più avanti».
(Rif. Pagina 11)
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Una serata in discoteca
Quella sera il disc-jockey doveva essere più in forma del solito. Da almeno un quarto d’ora non dava respiro alla decina di coppie che ancora resistevano in pista. Ma probabilmente doveva essere anche più sordo del consueto giacché il suono del basso continuo che usciva dalle casse acustiche aveva raggiunto livelli record.
Le luci psichedeliche che saettavano nella vasta sala già di per sé contribuivano egregiamente a mantenere quel clima di surriscaldato imbambolamento generale che sembrava andare tanto a genio ai giovani frequentatori del Tora! Tora!, una discoteca un po’ fuori mano rispetto al centro di Milano, verso Cinisello Balsamo, tutto sommato abbastanza ben frequentata.
Un giovanotto alto e magro, incurante di quanto stava avvenendo intorno a lui, si stava agitando, in piedi, davanti a un tavolino dove erano sedute due ragazze e un altro giovane. Quasi gridando, per farsi udire, a un certo punto se ne uscì con un perentorio: «Insomma, mi avete rotto. O scommettete o tacete!»
Una delle ragazze dette un’alzata di spalle; l’altra non ebbe alcuna reazione, sembrava immersa in fumosi pensieri tutti suoi. Il secondo giovane, biondo, distinto, stranamente vestito in giacca e cravatta (appena allentata) non si scompose più di tanto e ribatté: «Beppe, sei il solito testone. Ti assicuro che Tora! Tora! era il grido di guerra, la parola d’ordine dei piloti giapponesi che attaccarono la flotta americana a Pearl Harbour, e non c’entra una beata fava con lo spagnolo e le corride!»
(Rif. Pagina 24)
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Quel pomeriggio in piazza del Duomo
Mentre i musicisti si sistemavano in formazione sui gradini del monumento (contendendoli a decine di piccioni che, indispettiti, svolazzavano da tutte le parti), la folla a poco a poco si chiuse in-torno a loro in una mescolanza di persone e di animali che - meno male - fino a quel momento si erano mantenuti ragionevolmente tranquilli.
Giacomo si avvicinò a Marco, il veterinario, avvolto come sempre nel suo camice verde stinto. Era seduto su uno sgabello da campeggio dinanzi a un esile tavolinetto sul quale erano appoggiati alcuni plichi di volantini.
«Beh, come va? Fate proseliti?»
«Macché. I più si tengono alla larga. Ho la sensazione che ci abbiano scambiati per Testimoni di Geova.»
«Ah, ah!… buona questa. Adesso li svegliamo noi.»
Fu il trombone a farsi sentire per primo con un assolo che introdusse After you’ve gone, un medium swing tra i più celebri e godibili, nato nientemeno che intorno agli anni Trenta.
E fu un successo. Addirittura, sul finale, con il pieno d’orchestra, non poche coppie si erano messe a ballare accennando passi di boogie-woogie in un clima di festa, applausi e confusione generale.
…After you`ve gone and left me crying,
after you`ve gone there`s no denying…
Era difficile pensare a un pubblico più eterogeneo di quello: in prima fila un gruppo di giapponesi che scattava foto in continuazione; poi parecchi nuclei famigliari di milanesi con cani al seguito; qualche tedesco in calzoni corti e sandali; una scolaresca delle Medie tenuta a freno a stento da un paio di insegnanti. C’era anche un’anziana signora con in braccio un gatto che appariva terrorizzato.
(Rif. Pagina 72)
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La prof di inglese
La mansarda numero 5 era l’ultima in fondo al corridoio. Giacomo fece in modo che Grace si appoggiasse di schiena alla porta e prese a baciarla. Poi si staccò da lei e sorridendo le chiese: «Vuoi entrare o torniamo di sotto?...»
E lei, prendendogli il viso tra le mani: «Se non apri subito… you will see!»
Non fu necessario accendere la luce: da un lucernario sistemato nella parte in piovere del soffitto entrava un chiarore sufficiente per inquadrare l’ambiente, peraltro semivuoto: un ampio armadio a muro sulla destra probabilmente conteneva un letto matrimoniale; sulla sinistra due grossi piedoni in similpelle nera abbandonati sulla moquette (quei sacchi a pera ripieni di chissà cosa che si adattano alla forma del corpo); una sedia e un tavolinetto buttati in un angolo; in fondo una porticciola che presumibilmente dava accesso al bagno.
Giacomo accostò i due piedoni e si abbandonò su uno di essi. «Vieni Grace», disse.
Lei era in piedi dinnanzi a lui, e il profondo spacco della sottana lasciava intravedere le sue cosce nude, scure di sole. Si piegò verso Giacomo che le prese entrambe le mani.«… Mi svesto?» sussurrò lei.
«Non subito, vieni.»
(Rif. Pagina 118)
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Metti una sera a cena
«Sei molto elegante… e attraente», ammise Giacomo senza imbarazzo.
«Grazie. Ho visto che tu hai adottato un giaccone da marinaio, bello peraltro. Per cui, qui a Levico, ritieni di aver passato lo stretto di Dover?»
«Ti riferisci a come la pensava Nelson a proposito della proverbiale infedeltà dei marinai?»
«E delle loro mogli, io aggiunsi, ricordi?»
«Perfettamente.»
Mariella si scostò i capelli dal viso. «Sai, per la verità non mi sento molto propensa a finire la serata al parco del Governatore. Mi spiace per lui ma deve farci un freddo! Sento il bisogno di qualcosa di più intimo e caldo.»
«Anch’io. Del resto sono quasi le dieci e mezzo.» A un certo punto Mariella si girò verso di lui e lo guardò negli occhi. «Ascolta Giacomo… ti assicuro che non c’è ragione per cui tu ti debba preoccupare per me: non corro alcun rischio, né in casa né fuori di casa. E tantomeno voglio creare grane a te.»
«Sei certa di non incasinarti?»
«Del tutto. Ma tu come mi vedi?…»
«Ti vedo splendida. Per il resto ho deciso di attenermi a un noto detto indiano.»
«Indiani d’America?» Mariella appoggiò la testa sulla sua spalla. «Cosa dicevano quei bronzei uomini sempre seminudi e con le penne in testa?»
«Recito a memoria: “Non giudicare mai qualcuno se prima non hai camminato almeno un miglio dentro i suoi mocassini”.»
«Gente saggia. Allora torniamo in albergo nostromo?»
«No. Torniamo alla nostra tenda, piccola Notte di Luna.»
Uscirono dal locale che stavano ancora ridendo. E per sfuggire al freddo delle strade si misero quasi a correre verso il parcheggio… Che doveva pur trovarsi da qualche parte, accidenti!…
«Ah, ecco, andiamo di là: vedo il campanile della chiesa.»
(Rif. Pagina 253)
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