Primo capitolo
Ho rivisto Sara l’anno scorso, di questi tempi. Mi ha cercata lei dopo aver trovato il mio indirizzo di posta elettronica su internet. Ricordavo ancora l’ultima volta che ci eravamo viste: era l’estate del 1985 e io stavo per lasciare il piccolo centro di provincia nel quale avevo trascorso i primi tredici anni della mia vita. I miei compagni di classe mi avevano salutato con una serata in pizzeria, seguita da un giro in centro dove era in corso uno spettacolo all’aperto. A un certo punto Sara mi si era avvicinata, avvertendomi che un uomo tra la folla seguiva ogni mio movimento. Non mi aveva turbata tanto la consapevolezza che uno sconosciuto mi avesse presa di mira, quanto il fatto che a una mia coetanea fosse già nota la dinamica che porta certi uomini a insidiare le ragazzine. Lei sapeva qualcosa a me ancora ignoto, qualcosa che non solo apparteneva al mondo degli adulti, ma a una porzione di quel mondo fatta di bassi istinti da una parte e di profonda insicurezza dall’altra. Lei aveva paura per me, lo vedevo chiaramente. Sapeva cosa significava quel gioco del gatto col topo, e l’identificazione con la preda le veniva naturale.
Fu questo il primo ricordo che affiorò alla memoria quando ricevetti il suo messaggio. A distanza di vent’anni rividi Sara nei panni di una ragazzina spaventata e compresi cosa aveva provato quella sera. E in chissà quante altre occasioni, pensai un attimo dopo. Mi chiesi che cosa fosse successo nella sua vita di bambina, perché un’allerta così vigile, una capacità tanto sottile di individuare tra la folla un uomo pericoloso non si sviluppano sulla base di una semplice teoria; dovevano essere il risultato di qualcosa di più incisivo che non le solite raccomandazioni della mamma di non accettare caramelle da sconosciuti.
(Rif. Pagina 5)
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Dal secondo capitolo
L’errore di Sara era quello di non essersi mai ribellata. Elisa lo aveva fatto. Non era morta. Non è che il padre l’avesse uccisa. L’ultimo periodo che Elisa trascorse in casa era una discussione via l’altra. Lei se ne voleva andare, aveva già trovato un lavoro e una casa con un’amica. I genitori non mollavano ma lei teneva loro testa senza perdere colpi e arrivava persino a prenderli bonariamente in giro. Litigavano e lei rideva. Il padre diventava rosso dalla rabbia e la madre pallida come un morto; Sara tremava di paura e pregava mentalmente Elisa perché smettesse. Ma lei continuava come se si stesse divertendo. Alla fine sorrideva, si alzava da tavola e usciva di casa senza dire quando sarebbe tornata.
Il padre veniva immancabilmente travolto da una tosse da togliere il fiato, di quel tipo che non lascia nemmeno lo spazio di respirare. Ogni volta sembrava che dovesse crollare a terra. La madre gli passava dell’acqua, gli portava il miele, gli metteva davanti una caramella scartata. Lui non prendeva mai niente; aspettava semplicemente che la tosse passasse, poi inveiva contro Elisa mentre la madre rimaneva in disparte e alla fine si accendeva una sigaretta senza filtro. Sara era sempre nel suo angolo pietrificata dalla paura. Quando Elisa tornava erano di nuovo strepiti e urla, ma era come se in fondo non avessero poi molta importanza. Il punto è che lei aveva dato loro diversi motivi di orgoglio: era una ragazza intelligente e brava a scuola. Gli insegnati avevano sempre riconosciuto in lei il talento che le avrebbe aperto rapidamente le porte del lavoro. Ed era vero: lei aveva sempre disegnato con grande ispirazione, fin da piccola.
Se non ci fosse stato questo suo folle desiderio di andarsene, di vivere la vita lontano dai genitori, sarebbe stata una figlia perfetta.
(Rif. Pagina 12)
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Dal quarto capitolo
La madre di Sara era una di quelle donne che dopo aver espletato il proprio dovere coniugale si infila in bagno e piange. Sara l’aveva notata più di una volta uscire dalla camera da letto dei genitori con gli occhi lucidi, soffiandosi il naso, quindi si chiudeva la porta del bagno alle spalle e ci restava anche per mezz’ora. Da piccola Sara non capiva a cosa fossero dovute le lacrime e una volta aveva seguito la madre in bagno per chiederle perché piangesse. Non ricordava la risposta.
Tutte le questioni relative al sesso erano segrete. Sara non riusciva a immaginare come la madre fosse stata messa al corrente delle nozioni necessarie a svolgere la propria funzione riproduttiva. Col tempo doveva aver scoperto – con sgomento, immaginava Sara – che non sarebbe stato sufficiente concedersi al marito solo per lo stretto indispensabile al concepimento ma avrebbe dovuto soddisfarlo ogni volta che lui ne avesse manifestato il desiderio.
Per Sara la madre era vittima della rigida educazione cattolica che andava di moda ai suoi tempi e che pretendeva di ridurre le donne a incubatrici. Era quella la loro funzione elettiva: non veniva loro richiesto altro che essere madri. E mogli. Se poteva essere relativamente chiaro cosa volesse dire essere madre, il ruolo di moglie riguardava un aspetto della vita coniugale che le donne scoprivano solo con il matrimonio.
E non per tutte questo aspetto era gratificante.
Per la madre di Sara non si trattava solo del naturale imbarazzo dovuto all’ignoranza e all’inesperienza ma anche del terribile peso rappresentato dal senso di colpa. Il sesso era invariabilmente associato al peccato, era qualcosa di sconveniente, di sporco. Erano ancora i tempi in cui le donne dovevano arrivare illibate al matrimonio; nella loro virtù c’era tutto il loro valore, la garanzia della loro qualità, ciò che le rendeva degne di essere mogli e soprattutto madri.
(Rif. Pagina 26)
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Dal quinto capitolo
Alcune delle abitudini della madre, quella donna repressa che viveva in funzione della sua capacità di imporre a se stessa e agli altri sacrifici privi di senso, sembravano frutto di un apprendimento profondo e remoto. Sara ricordava che durante la sua infanzia la madre si lavava utilizzando una quantità irrisoria di acqua. Si sedeva nella vasca da bagno vuota, serrava lo scarico e apriva il rubinetto. In pratica si faceva la doccia seduta, chiudendo l’acqua mentre si insaponava rapidamente la pelle. Sara non entrava in bagno durante le abluzioni della madre ormai da anni ma non c’era motivo per credere che la procedura avesse subito qualche evoluzione.
Sarebbe stato possibile calcolare il risparmio economico determinato da quel primitivo modo di lavarsi? E se sua madre avesse riempito la vasca di acqua e schiuma, e vi si fosse immersa godendosi un caldo e rilassante bagno il bilancio familiare sarebbe andato in rosso? E cosa avrebbe invece guadagnato in equilibrio mentale e fiducia nella vita? Si poteva quantificare tutto ciò?
Sua madre era una di quelle massaie che a casa controlla lo scontrino del supermercato, spuntando il prezzo di ogni singolo articolo, anche in un’epoca in cui non sono le cassiere a inserire a mano i prezzi nel registratore di cassa. Eppure non si può mai sapere... Questi piccoli gesti, queste manie vissute con la fronte perennemente aggrottata avevano accompagnato la vita di Sara per tutti quegli anni, determinando l’amarezza che da sempre si sentiva appiccicata alla pelle come uno strato di unto.
(Rif. Pagina 40)
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Dal settimo capitolo
In quelle due case tutto doveva essere in perfetto ordine. Ogni cosa aveva un posto e non era concepibile che venisse abbandonata in giro. Quella modalità ossessiva era stata efficacemente trasmessa da Antonia al figlio, che non si stancava di rimproverare Sara ogniqualvolta non riponeva la forbici nel cassetto o non collocava il telecomando nella corretta posizione sul tavolino accanto al divano. –Ordine è la parola d’ordine- proclamava con il tono di chi impartisce un imperativo morale dall’alto di una superiorità indiscussa.
Filippo nutriva anche la convinzione che tenendo le finestre e imposte chiuse la polvere non sarebbe entrata e la luce del sole non avrebbe rovinato i mobili.
-Cosa ci fa questa finestra aperta?- le chiese un giorno che, tornato a casa, aveva trovato socchiusa la finestra della stanza in cui Sara stava stirando. –Ti ho già spiegato perché le finestra vanno tenute chiuse. Non è difficile da capire, no? E allora perché non fai quello che ti dico? Io vivo qui dentro da anni e so come si tiene questa casa, quindi fai come ti dico io.- L’espressione abbattuta di Sara lo indusse a un’importante precisazione: -Lo faccio anche per te: meno polvere entra meno dovrai lavorare per toglierla, no?
Sara aveva sempre più l’impressione di vivere in un museo dove mobili e oggetti andavano curati e venerati ma non usati. Anche con il passare del tempo non riusciva ad affezionarsi a loro; nel migliore dei casi era indifferente a poltrone e divani sui quali probabilmente non si sarebbe mai seduta. Continuava a pensare che tutte quelle cose in fondo non le appartenevano e non sarebbero mai state davvero sue, perché non solo non le poteva usare, ma non le aveva nemmeno mai desiderate.
(Rif. Pagina 63)
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Dal settimo capitolo
Liquidare il comportamento di Filippo come quello di un uomo che ricercava esclusivamente la soddisfazione egoistica di un proprio bisogno era del tutto riduttivo. In realtà lui pretendeva che lei lo assecondasse in qualche modo e il fatto che Sara si rifiutasse, per esempio, di fingere non mancava di irritarlo. Davanti all’assoluta indifferenza di Sara non riusciva a fare altro che esortarla ad applicarsi un po’, quasi che il sesso coniugale non fosse altro che una materia scolastica e Sara un’alunna promettente ma svogliata.
Lui era profondamente insoddisfatto di Sara; inizialmente era stato solleticato dall’idea di poterla educare a proprio piacimento perché imparasse tutte quelle pratiche che lo eccitavano. La docilità con la quale lei si era prestata a indossare un abbigliamento provocante lo aveva fatto ben sperare. Non conosceva però la strategia che Sara metteva in atto per neutralizzare gli attriti ed evitare il confronto diretto, che consisteva nel fare piccole concessioni su questioni marginarli, conservando però la propria posizione su ciò che riteneva fondamentale. Per questo assecondava Filippo nella realizzazione delle sue fantasie erotiche, senza però farsi davvero coinvolgere come sarebbe stato auspicabile all’interno di una relazione intima.
Sara aveva capito abbastanza in fretta che il sesso per Filippo consisteva una delle modalità principali con la quale esercitare un controllo totale su di lei. Per questo non sopportava che gli venisse negato, e per questo lo pretendeva soprattutto nei momenti in cui percepiva da parte di Sara una resistenza a piegarsi alle sue richieste. Era un modo per affermarsi su di lei, per confermare la propria superiorità, per ribadire con forza l’assoluta necessità che qualunque suo desidero venisse esaudito.
La passività con la quale accoglieva le pretese di Filippo era l’unica forma di resistenza che Sara era stata in grado di individuare e mettere in atto.
(Rif. Pagina 71)
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Dall`ottavo capitolo
Sara comprese lentamente che Antonia, dopo un primo periodo di diffidenza nei suoi confronti, aveva iniziato a fare grande affidamento su di lei. Aveva giustamente riconosciuto in Sara alcune doti che la rendevano una perfetta nuora, almeno nel suo caso: l’avversione per il conflitto, la capacità di minimizzare le questioni che avrebbero potuto portare a uno scontro, l’acquiescenza, l’intima convinzione che qualsiasi cosa sarebbe stata preferibile a una discussione. Sara era la confidente ideale, la persona che non avrebbe fiatato nemmeno se ci fosse stata in gioco la sua vita, una creatura così innocente da sembrare di una purezza sovrumana.
Una volta alla settimana andavano a fare la spesa insieme. Percorrevano le corsie del supermercato nelle ore di calma, quando la maggior parte delle persone era al lavoro; gli scaffali erano appena stati riforniti e non mancava mai niente, con un’opulenza e una varietà che inducevano Sara a chiedersi se davvero non le era capitato di vivere nel migliore dei mondi possibili. Antonia prendeva in mano barattoli, scatole, sacchetti e ne scrutava l’etichetta come se riportasse la formula magica per la felicità. Si confrontava con Sara e le chiedeva consigli, come se la nuora fosse depositaria di saperi a lei preclusi.
Antonia comperava sempre a Sara qualche cosa tutta per lei: dei biscotti speciali al cioccolato, uno stick per labbra, uno smalto indurente per le sue unghie fragili, un pacchetto di patatine alla paprika. Ogni volta la donna sembrava dedicare uno sforzo nuovo all’individuazione di qualcosa che potesse farle piacere; questo comportamento, forse l’unico davvero genuino e privo di secondi fini, suscitava in Sara un moto di commozione del quale si stupiva ogni volta. Era persino arrivata a pensare che la sua vita sarebbe potuta essere completamente diversa se a concederle questi piccoli vizi fosse stata sua madre.
(Rif. Pagina 76)
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Dal decimo capitolo
Quell’anno Sara si fece tagliare i suoi lunghissimi capelli. Le sembrava un modo di semplificare la sua vita. Per anni suo padre le aveva intimato di tenerli legati; da quando era sposata sua suocera non faceva altro che dirle di scioglierli, perché non aveva senso tenere i capelli lunghi per poi averli sempre intrecciati.
I capelli lunghi per lei non significavano più nulla. Aveva resistito ostinatamente alle pressioni di sua madre, che periodicamente la criticava per i capelli che lasciava sulla spazzola o per quelli che finivano nello scarico della vasca da bagno, intasandolo. I suoi lunghi capelli le erano venuti comodi solo per l’acconciatura sfoggiata al matrimonio. Ora era stanca. Qualche volta le sembrava persino che pesassero sulla testa e che tagliarli avrebbe voluto dire liberare i propri pensieri.
-Che cosa hai fatto ai capelli?- strillò Antonia.
-Li ho tagliati.
-No. Ma perché?- urlò disperata.
Sara pensò che eludere quella domanda avrebbe tolto ossigeno alla discussione.
-Ho sposato una matta- sentenziò Filippo quando la vide. –Sapevo che non eri a posto, ma fino a questo punto…
-Dovevo forse chiedere il permesso?- sbottò lei.
Filippo la guardò sorpreso. –Non so. Ti sembra normale non dire niente a nessuno e andare a tagliarti i capelli? Stessi bene, almeno. Sembri una disgraziata. Vorrei sapere dove sei andata. Se avessi chiesto alla mamma ti avrebbe accompagnato dalla sua parrucchiera. Invece chissà chi te li ha tagliati.
Sara non disse niente.
-Ho ragione. Ma ti sei vista allo specchio? Hai quattro peli messi in croce, su quella testa; fai davvero cagare.
(Rif. Pagina 92)
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Dal dodicesimo capitolo
-Per lei la vita e un gioco da ragazzi. Non si ricorda di quando nostro padre, tra un bestemmia e l’altra, ci diceva che dovevamo imparare a stare al mondo. Non ho mai capito cosa volesse dire ma sicuramente era qualcosa che a me non riusciva affatto bene. Scommetto che lo dice ancora adesso. Non sono capace di stare al mondo, altrimenti a quest’ora avrei ancora un marito e chissà quanti bambini. E non si ricorda di nostra madre, sempre con quell’espressione severa dipinta sulla faccia, quasi che ridere potesse mandarla in pezzi.
Sorrisi. –La vita è una cosa seria- dissi senza pensare, ripetendo una frase che mia madre usava quando mi comportavo male e non ne avevo la consapevolezza.
Sara mi rivolse lo stesso sguardo di qualche minuto prima e annuì. –Proprio così- disse come se avessi trovato la soluzione a chissà quale enigma.
-Guarda che siamo figlie della stessa generazione.
(Rif. Pagina 118)
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Dall`ultimo capitolo
La grande fregatura delle sua vita era stato credere alle speranze che aveva da piccola. Per effetto di un’esposizione prolungata e acritica alla televisione era cresciuta credendo fideisticamente nella parità tra uomo e donna; vedeva donne che si comportavano esattamente come gli uomini e questo per lei significava che davvero le pari opportunità non solo venivano affermate con forza ma anche che nessuno avrebbe mai osato metterle in discussione. Nella sua mente di bambina lei avrebbe potuto fare quello che avrebbe voluto, e non aveva molta importanza il fatto che, tanto per incominciare, in casa non le era nemmeno permesso avere una personalità propria.
Non sapeva come avesse finito per nutrire una fiducia tanto ingenua e spassionata in questo concetto, eppure era stato così. E l’ingiustizia peggiore perpetrata nei suoi confronti era stato lasciarle questa illusione.
Il suo matrimonio era solo l’ennesimo caso di disinganno. Ogni singolo istante di quegli otto anni con Filippo aveva pensato: non può esistere un uomo del genere, negando la realtà che le si presentava davanti. Il concetto stesso di parità sconfessava l’esistenza di un uomo come Filippo, aveva pensato Sara fino al momento in cui si era resa conto che, al contrario, l’esistenza di un uomo come Filippo minava quel concetto alla base. Dove la parità consisteva in un’enunciazione astratta, Filippo era un individuo in carne e ossa formato e cresciuto in un contesto culturale che lei conosceva molto bene: quello che svalutava il genere femminile e lo relegava a un ruolo ancillare, nella migliore delle ipotesi.
Quell’humus aveva anche alimentato il suo sviluppo di donna priva di autostima, al punto che la telefonata della nuova fidanzata di Filippo l’aveva fatta sentire ancora una volta incapace di avere una propria posizione nella vita. Se esisteva una donna che poteva amare un individuo come Filippo, allora voleva dire che il problema era davvero solo suo.
(Rif. Pagina 136)
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