Incontro tra i due protagonisti, Gabriele e Laura, ai Giardini di Lussemburgo di Parigi. Tra i due scatta subito una naturale sintonia.
La prima volta che la vidi ero ai Giardini di Lussemburgo, a Parigi. Mi sarei aspettato che a metà ottobre facesse più freddo, invece, in quel terzultimo mese del 2008, il sole riscaldava ancora l’atmosfera domenicale e, riparatomi sotto l’ombra di un albero, mi sbottonai la giacca poggiandomi con la schiena sul tronco umido. Non era molto distante, ma mi passò davanti lentamente, come una collina sullo sfondo di un paesaggio rurale dal finestrino di un treno in corsa. Attraversava uno dei lunghi viali di terriccio e ghiaia con una falcata così ampia ed elegante che sembrava non toccasse terra. Il riflesso della luce sulle sue scarpe nere, per nulla impolverate, non fece che confermare quella mia impressione.
“Anche il fango la rispetta” pensai.
Il flusso delle mie fantasie fu interrotto quando le scivolò la borsa di cuoio nera dalla spalla, rovesciando metà del contenuto sotto il naso di un paio di passanti, che le lanciarono un’occhiata distratta senza fermarsi a soccorrerla. Intuii il suo imbarazzo dalla frenesia con la quale si accovacciò con le ginocchia piegate, cercando di rimettere a posto gli oggetti con lo sguardo basso, per evitare di incrociare quello di qualcuno che l’avesse vista in una situazione così maldestra. Col tempo imparai che quel suo comportamento, a prima apparenza maestoso e composto, era soltanto uno scudo per mascherare una profonda timidezza.
Si rialzò di scatto, ma così facendo, dimenticò di chiudere la cerniera e rovesciò di nuovo parte degli oggetti per terra. Col capo chino e le mani sui fianchi, li fissò per un attimo con il broncio di chi sapeva che sarebbe successo. Era deliziosa. Mi venne da sorridere.
(Rif. Pagina 5)
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Gabriele, in giro per la città, avvista Laura in lontananza con un ragazzo. I due sembrano aver litigato, anche se mostrano un`evidente complicità.
Per uno scherzo del destino, proprio nel momento in cui Laura aveva per qualche istante disertato la mia mente, la sua figura sbucò da un vicolo sulla destra, ad una cinquantina di metri davanti a me. Si fermò al semaforo rosso, in attesa di poter attraversare la strada, con uno strano sguardo, che nonostante la distanza, mi parve essere corrucciato. Vederla così all’improvviso, come avevo tanto sperato, mi spiazzò al punto tale da immobilizzarmi, indeciso sul da farsi, chiedendomi ancora se fosse veramente lei o se mi fossi soltanto impressionato.
Assicuratomi che fosse lei, feci per chiamarla alzando il braccio, ma un attimo prima che le mie parole uscissero di bocca, un ragazzo alto, dai capelli biondi e fluenti, sbucò anch’egli dal vicolo e le poggiò entrambe le mani sulle spalle. Lei non ebbe il sussulto che chiunque avrebbe avuto nel caso in cui uno sconosciuto avesse fatto un gesto del genere, e capii che i due erano già insieme, prima che io li vedessi.
Laura non si voltò verso di lui, che da dietro le sussurrava qualcosa nell’orecchio col fare premuroso di chi ha l’intenzione di scusarsi. Sembrava avessero litigato. Lei avvicinò la sigaretta alle labbra, stretta tra l’indice e il medio della mano destra, e aspirò profondamente. Non gli disse nulla, aspettò che il semaforo si facesse verde e attraversò la strada lasciando il ragazzo un paio di metri dietro di sé, prima che lui prendesse a seguirla con passo deciso.
Quando giunsero sul marciapiede di fronte il ragazzo le si accostò al fianco, ed insieme sparirono dalla mia vista dietro l’angolo.
(Rif. Pagina 18)
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Gabriele e Laura fanno l`amore e l`intesa naturale che avevano scoperto nel loro primo incontro, la riscoprono anche nell`intimità.
Quella sera facemmo l’amore.
Ho sempre avuto uno strano ricordo di quei momenti. La mia mente, col passare degli anni, è come se avesse selezionato le immagini ed avesse deciso autonomamente di custodire soltanto i particolari essenziali.
Non ricordo dove fossimo, neanche come ci fossimo finiti; era come se da quella visita al Cimitero di Montparnasse, ci fossimo catapultati direttamente in quello spazio imprecisato e in quel tempo indefinito, come accade in un sogno.
Il buio mi avvolgeva come un mantello di seta, me lo sentivo scivolare addosso con morbidezza sulle spalle e sul collo, mentre, tutt’intorno, nessun rumore suggeriva al mio udito dove potessi trovarmi, solo un sordo sibilo mi raggiungeva.
Ad un tratto, una fioca luce in lontananza cominciò a squarciare quel buio, muovendosi lentamente nell’aria. Sentii l’irrefrenabile desiderio di seguirla, come fosse stata una stella cometa che mi stesse indicando il percorso giusto da intraprendere. Avvicinandomi a lei, da semplice luce che era, la vidi trasformarsi e prendere sempre di più le sembianze di un corpo umano perfettamente modellato e dalle forme plastiche e sinuose. A pochi passi, rimasi sorpreso dal fatto di scoprire che era proprio Laura quel corpo perfetto, quella luce, quella cometa. Emanava un’energia interiore che le permetteva di illuminarsi, ma contemporaneamente di lasciare nel buio più profondo tutto lo spazio circostante. Da vicino, i suoi contorni sembravano sfumati e cercai così di sfiorarle la pelle del braccio con le dita, sentendo sotto i polpastrelli quel senso di liscio, di lucido e di freddo che si prova accarezzando una statua di marmo.
(Rif. Pagina 31)
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Prima "sospensione". La narrazione si catapulta nel futuro, dove Gabriele, il protagonista, non ha idea di dove si trovi nè di quello che gli stia accadendo.
“Non sento”.
Il tocco della mano della donna che mi sta di fianco sulla mia, quello sì, lo sento. Il peso delle palpebre sugl’occhi, anche quello lo sento. Tutto il resto del mio corpo però è addormentato, intorpidito, non sente.
Ho detto che quella donna è mia moglie, ma non ne sono sicuro. L’ho detto perché continua a toccarmi la fede sul dito anulare e nello stesso momento, nell’altra mano, mi mostra la sua fede, nel tentativo di suggerirmi qualcosa.
Mi fissa e piange.
È un pianto silenzioso, composto, ma senza significato per me. Non so perché lo stia facendo e non ho neanche la forza per immaginarlo.
Sfuggo da quella scena e sposto lo sguardo tutt’intorno, ma con fatica. Avverto lo sforzo delle pupille che galleggiano nella sclera dell’occhio e si barcamenano alla ricerca di un appiglio che dia loro un sostegno.
L’ambiente in cui mi trovo è senza forma né spazio.
È un antro semioscuro di cui non vedo il fondo e di cui non sento l’odore. Spiragli di luce lo attraversano ad intermittenza, sono fari di segnalazione in cima ad una scogliera rocciosa. Il brusio costante che mi arriva all’orecchio è ovattato, come una musica su un vecchio nastro registrato troppe volte.
Vengo attratto da una specie di luce rossa sfocata non molto distante da me. Perdo i contorni di tutto ma senza chiedermi perché stia accadendo; ho poca forza e poca volontà, sono svuotato e apatico.
Mi concentro sulla luce rossa e con grande sforzo vedo delinearne le forme e mi accorgo che non è una luce unica, ma una serie di piccole luci vicine l’una all’altra. Mi concentro ancora di più e vedo apparire dei numeri in successione, ai quali non attribuisco subito un significato.
“21 03 2037”.
Sono lì, di fronte a me e sembrano volermi suggerire anche loro qualcosa, sembra vogliano parlarmi, ma non capisco il loro linguaggio.
Sono addormentato, intorpidito, “non sento” e non mi sembra poi tanto male.
(Rif. Pagina 33)
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